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Briciole di vendemmia i ricordi dei pranzi comunitari

Scritto da Alessandro Rivetto il 02 Ottobre 2019

Ogni anno il periodo di vendemmia porta con sé un bagaglio di ricordi, che mano a mano si trasformano da storie a brevi immagini, profumi, spazi.

Gli anni ‘70, nonno Ercole già anziano, ma instancabile lavoratore, in compagnia del vicinato perché ai tempi “ci si aiutava l’un l’altro”. Erano tutti contadini, tutti raccoglievano l’uva, ma non si era in competizione se non sulla migliore toma, sul salame più saporito. Ma quella è un’altra storia.

Al centro della tavolata, zuppa e insalata

Ciò che più è rimasto impresso dei mesi di settembre – ottobre, più che la fatica e la soddisfazione del raccolto, sono i pranzi. Si iniziava presto la mattina tra i filari, ma immancabilmente alle 11 ci si fermava per mangiare. Si entrava nella cucina riscaldata dal putagè, dove già da ore cuoceva la zuppa.

Ricordo Giacinta, un’anziana donna che viveva e lavorava da noi, che ogni mattina scendeva all’orto per raccogliere porri, patate, fagiolini, insalata, gli ultimi pomodori… e poi la roba fresca veniva divisa tra minestrone e insalata, i due piatti forti che non mancavano mai in centro tavola.

Tutto ciò che invece era di troppo, da usare il giorno seguente, veniva preparato e conservato nel buon vecchio frigo Fiat… gli ultimi veri frighi, quelli che ti portavi dietro 30 anni e che mai una volta creavano problemi.

Ingredienti ricchi su tovaglie povere

Io ero piccolo, appena un metro e venti di uomo, e quando correvo a sbirciare le proposte del giorno a malapena arrivavo a livello del tavolo con lo sguardo. Non c’era bisogno di vederlo per riconoscere il profumo del pane tostato sul putagè, con la gorgonzola portata da qualcuno per farla assaggiare, che poi si scioglieva sul pane caldo dando sollievo al palato e all’animo.

C’era molta povertà, ma in tempo di vendemmia si sfoggiavano i cibi “ricchi” per premiarsi del duro lavoro. Addirittura ricordo che negli ultimi giorni, verso fine ottobre, di cascina in cascina passavano i trifulau a lasciarci il tartufo. Allora cuocevamo 15 – 20 uova in una grossa pentola, e ognuno vinceva un pezzo di omelette.

E poi da regola… “picheta” e caffè

Gli adulti pasteggiavano con bottiglioni da due litri di “picheta”, quel vino leggero dell’ultima spremitura del torchio, che veniva diluito con l’acqua e faceva appena 10 gradi. Talvolta, di nascosto dalle donne, ne davano un goccio pure a me. Gli astemi bevevano l’acqua fresca del pozzo, resa più golosa dalla Cristallina della Ferrero.

A fine pasto si metteva sul fuoco la caffettiera gigante e si chiudeva con il caffè, rigorosamente servito nei bicchieri dell’acqua perché le tazzine erano un lusso del sabato e della domenica. E poi tutti all’ombra degli alberi per il riposino, al fresco del cappello di paglia.

Meno sfavillii, più valore

Ripensandoci ora mi stupisco di quanto questi gesti, piccole abitudini tutto sommato comuni, riuscissero a emozionarmi. Il mondo del vino è cambiato, ha acquistato grande ricchezza, ma l’emozione, ecco, quella forse a volte viene messa da parte per altre priorità.

Era al contempo più dura e più facile la vita di quegli anni: ci si spaccava la schiena, ma lo si faceva con una semplicità e un senso del dovere che davano più valore alle piccole gioie, come appunto questi ricordi. In questi giorni di vendemmia, vi invito a tirare fuori le foto di quei tempi, guardare i visi sporchi e i sorrisi felici e chiedervi cosa davvero abbia valore: se le piccole costanti ansie di oggi, o il rasserenante piatto di zuppa calda di allora.